Nei giudizi per responsabilità medica sussistono due diversi nessi di causalità: il primo riguarda l’evento dannoso; il secondo riguarda l’impossibilità di adempiere.

Soltanto dopo aver dimostrato l’esistenza del primo ciclo causale, si andrà a valutare l’esistenza o meno del secondo. Ebbene, il danneggiato dall’evento di malpractice medica è onerato dal dimostrare il nesso di causalità tra il fatto e l’evento dannoso: in particolare, egli deve provare l’esistenza di un nesso di causalità fra l’insorgenza della malattia o il suo aggravamento e la condotta posta in essere dal sanitario. Invece, il danneggiante deve provare che egli non poteva adempiere correttamente: in particolare, il sanitario deve dimostrare l’esistenza di una causa imprevedibile e inevitabile che ha reso impossibile la prestazione.

La Cassazione ha più volte ribadito il principio che in sede civile la causalità va valutata secondo la regola della preponderanza dell’evidenza ovvero “del più probabile che non” (Cass. S.U. nn. 576 e 581 dell’11.1.2008; Cass. 11.5.2009 n. 10741; Cass. 8.7.2010 n. 16123; Cass 21.7.2011 n 15993; Cass 20.10.2014 n. 22225). Per ricollegare quindi un evento lesivo ad un atto medico colposo occorre che sussista tra i due elementi un nesso causale non in termini di certezza (“oltre ogni ragionevole dubbio”, come deve avvenire in sede penale ) né di mera possibilità, ma di rilevante probabilità, nel senso che il comportamento commissivo o omissivo del singolo sanitario o della struttura deve aver causato il danno lamentato dal paziente con un grado di efficienza causale così alto da rendere più che plausibile l’esclusione di altri fattori concomitanti o addirittura assorbenti.

Non si deve dimenticare, però, che tale criterio non può ridursi ipso facto all’aberrante regola del 50% plus unum (l’espressione è di Cass. III, 27/07/2011, n. 15991), poiché la ragionevole probabilità che un antecedente eziologico abbia provocato un danno non va intesa in senso statistico, ma in senso logico; questo vuol dire che anche una causa statisticamente improbabile può assurgere a genesi del danno, se tutte le altre possibili cause fossero – nel caso concreto – ancor più improbabili, e non siano concepibili altre possibili cause. Sotto questo profilo, è stato merito di Cass. III, 21 luglio 2011, n. 15991, aver ribadito e precisato siffatta regola di giudizio:
“La disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del torto civile rispetto al reato impone, nell’analisi della causalità materiale, l’adozione del criterio della probabilità relativa (anche detto criterio del “più probabile che non”), che si delinea in una analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, nella loro irripetibile unicità, con la conseguenza che la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza potersi fare meccanico e semplicistico ricorso alla regola del “50% plus unum”.

Quanto alla ripartizione dell’onere della prova nelle cause di responsabilità medico – sanitaria, è principio ormai pacifico quello secondo cui spetta al paziente dimostrare il danno subito ed il nesso causale tra lo stesso ed il trattamento medico, mentre per andare esenti da responsabilità il sanitario ovvero la struttura in cui lo stesso opera dovranno provare di aver correttamente e diligentemente eseguito la prestazione medica e quindi l’assenza di colpa, imprudenza o imperizia e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile. In particolare secondo la più recente giurisprudenza “… sia nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, sia in quelli di risarcimento del danno da fatto illecito, la condotta colposa del responsabile ed il nesso di causa tra questa e il danno costituiscono l’oggetto di due accertamenti concettualmente distinti; la sussistenza della prima non dimostra di per sé anche la sussistenza del secondo e viceversa; l’art. 1218 c.c. solleva il creditore della obbligazione che si afferma non adempiuta dall’onere di provare la colpa del debitore inadempiente, ma non dall’onere di provare il nesso causale, tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento; nei giudizi di risarcimento del danno da colpa medica è onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento; tale onere va assolto dimostrando con qualsiasi mezzo di prova che la condotta del sanitario è stata secondo il criterio del più probabile che non la causa del danno; se al termine dell’istruttoria non risulti provato il nesso tra condotta ed evento per essere la causa del danno rimasta assolutamente incerta la domanda deve essere rigettata”.
Sempre in argomento la cassazione ha anche affermato che “…grava quindi sul creditore l’onere di provare il nesso di causalità tra l’azione e l’omissione del sanitario ed il danno di cui domanda il risarcimento. Non solo il danno ma anche la sua eziologia è parte del fatto costitutivo che incombe all’attore di provare. Ed invero se si ascrive un danno ad una condotta non può non essere provata da colui che allega tale ascrizione la riconducibilità in via causale del danno a quella condotta..” (Cass. 3704/2018, Cass. 18392/2017; 26824/2017; 26825/2017).
Occorre pertanto verificare sia l’esatto adempimento o meno della prestazione medica da parte del convenuto, sia il rapporto causale tra l’eventuale inadempimento e i pregiudizi che siano effettivamente accertati in capo al paziente.