Il diritto all’autodeterminazione nel nostro ordinamento giuridico trova fondamento negli art. 2, 13 e 32 della Costituzione.

Ai sensi dell’art. 32 della nostra carta costituzionale, “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Con il richiamato articolo viene riconosciuta tutela fondamentale non solo al diritto alla salute ma altresì al diritto di autodeterminazione del paziente ovvero il diritto del paziente di scegliere liberamente e volontariamente se sottoporsi o meno ad un determinato trattamento sanitario.

È onere del medico, pertanto, informare adeguatamente il paziente dell’iter terapeutico che intenderà adottare, conferendo così al paziente stesso la possibilità di scegliere consapevolmente se sottoporsi o meno allo stesso.

Il diritto all’autodeterminazione è stato sancito in ambito europeo dalla Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, firmata a Oviedo il 4 aprile 1997, che all’art. 5 statuisce che deve trattarsi di “una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi”. Viceversa, il diritto all’autodeterminazione verrebbe certamente inficiato.

La Cassazione con la recente sentenza n. 29469/20, si è espressa in materia di consenso informato e diritto di autodeterminazione, specie in relazione al dissenso alle emotrasfusioni per motivi religiosi da parte del Testimone di Geova.

Nel caso di specie una paziente Testimone di Geova in occasione di un intervento programmato di parto cesareo esprimeva il rifiuto alle emotrasfusioni che tuttavia le veniva lo stesso eseguita dai medici a seguito di una grave emorragia.

La donna citava pertanto in giudizio i medici e la struttura ospedaliera, chiedendo il risarcimento dei danni subiti come conseguenza delle trasfusioni imposte, in grave violazione del suo diritto all’autodeterminazione.

Il Tribunale di Milano prima e la Corte di Appello successivamente respingevano le richieste della donna. Secondo i giudici meneghini, con l’accettazione dell’intervento di laparatomia, la signora manifestava il desiderio di essere curata e con ciò accettava implicitamente tutte le fasi dell’intervento, inclusa la necessità di eventuali emotrasfusioni. Inoltre, ad avviso dei giudici, non veniva dimostrato che il dissenso preventivo alla terapia trasfusionale fosse manifestato nella piena consapevolezza circa l’effettività e la gravità del pericolo per la propria vita.

La Suprema Corte con la richiamata sentenza riforma quanto statuito dai Giudici di merito sostenendo che “la dichiarazione anticipata di dissenso all’emotrasfusione, che possa essere richiesta da un’eventuale emorragia causata dal trattamento sanitario, non può … essere neutralizzata dal consenso prestato a quest’ultimo”. Pertanto, una cosa è il consenso all’intervento chirurgico e un’altra è il consenso al trattamento emotrasfusionale.

L’attualità del dissenso, quindi, non è da riferirsi al momento del peggioramento della situazione clinica o del sorgere del pericolo di vita, ma alla volontà manifestata. Il dissenso dato in condizioni di piena capacità non perde valore, per la Cassazione, qualora sopraggiunga un successivo stato di incapacità del soggetto o una situazione di pericolo.

Suprema Corte ritiene che a sostegno del diritto di rifiutare l’emotrasfusione vi sia “un complesso concorso di principi”rappresentato da quello all’autodeterminazione in materia di trattamento sanitario (art. 32 Cost.), ma anche da quello di libertà religiosa (art. 19 Cost.). Tale osmosi di principi costituzionali, nel caso di specie non incontra principi di segno contrario suscettibili di bilanciamento.

Quanto al diritto di autodeterminazione, la Corte ribadisce che “la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce …diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute” (Cass. n. 28985/2019) e rispetto alla libertà religiosa ricorda che si tratta di “un diritto inviolabile” tutelato “al massimo grado” (Corte Cost. n. 52/2016)

Questi diritti e interessi rientrano esclusivamente nella “sfera soggettiva [del paziente] … e non ad un bene-interesse contrapposto a tale posizione”. Non sussiste, in altri termini, “un principio da contrapporre a quello dell’autodeterminazione e della libertà religiosa”, garantita con “piena e diretta attuazione” dall’art. 19 Cost.. In questo modo la pronuncia conferma il definitivo abbandono dell’abusato concetto di “intervento per stato di necessità”, usato in passato per violare la porta dell’autodeterminazione sanitaria e delle volontà espresse dall’individuo, in nome di un astratto ed eterodeterminato diritto alla vita. Al centro, come da giurisprudenza consolidata, viene pertanto posto il paziente, con le sue scelte di vita e i valori che caratterizzano la persona, fra cui indubbiamente i propri convincimenti religiosi.

La Corte sottolinea che “quella dei Testimoni di Geova non costituisce una mera autodeterminazione sanitaria, ma una vera e propria forma di obiezione di coscienza”, dato che, “se un Testimone di Geova accettasse volontariamente una trasfusione di sangue, ciò equivarrebbe ad un atto di abiura della propria fede”, e che, “non si tratta, quindi, di rispettare solo il corpo della persona nella sua fisicità, ma di rispettare la persona umana nella sua interezza, ossia nei suoi valori morali, etici e religiosi”. L’unicità di questo dissenso sta nel suo duplice valore, come afferma la Corte, ossia quale espressione del “principio di autodeterminazione circa il trattamento sanitario” e della “libera professione della propria fede religiosa”.

Il principio di diritto che la Cassazione enuncia è di particolare importanza: “il Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita”.